Giornata mondiale delle migrazioni (16 gennaio 2011)
«Una sola famiglia umana»
(Is 49,3.5-6; Sal 39; 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34)
Le letture che ci accompagnano nella liturgia di questa domenica suscitano in noi sin dall’inizio uno sguardo che si apre ad orizzonti senza limite, sconfinati.
La prima lettura ci ripropone il secondo dei quattro canti del «Servo del Signore».
Vi si parla di un profeta, oggetto della chiamata e della predilezione di Dio fin dal seno materno. L’esclusiva premura di cui ha potuto godere ha fatto sì che la sua esistenza fosse totalmente posta a servizio di Dio e diventasse un’unica, grande manifestazione della sua gloria. Anche per lui, come per altri profeti, ci sarà l’esperienza dell’insuccesso umano; ma proprio quando si ha l’impressione che il suo servizio non abbia avuto l’esito sperato e sia miseramente fallito, Dio lo riabilita in modo sublime e straordinario glorificandolo, letteralmente «conferendogli un peso»: gli riconosce un peso rilevante e determinante nella storia.
Sappiamo che la rilettura cristiana sin dai primi secoli ha intravisto in questa figura un annuncio di Cristo e del suo ministero salvifico, culminato prima nella Passione e nella croce, e poi nella gloria della risurrezione. È quanto traspare nella grande preghiera di Gesù, nell’ora del suo sacrificio: «Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,4-5). Ed è ciò che riecheggia nell’inno del secondo capitolo della Lettera ai Filippesi, dove si legge: «Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,8-9).
Ora, è interessante notare come il «Servo del Signore» non limiterà la sua azione di salvezza al solo resto fedele di Israele: la sua parola si irradierà su tutta l’umanità e diventerà fonte di luce sino ai confini del mondo. Questo indizio rimanda alle profezie riguardanti la Gerusalemme nuova, dove si descrive l’ascesa e l’affluenza gioiosa non solo del popolo di Israele, ma insieme di una moltitudine di genti proveniente da ogni parte della terra (cf. Is 2,3; 56,6-8; 60,11-14; Zc 8,20-21; 14,16).
È quanto poi l’Apocalisse ci fa contemplare nella Gerusalemme celeste: essa si presenterà con le porte spalancate, verso ciascuno dei quattro punti cardinali, a suggerire l’ingresso non soltanto della nazione eletta, ma anche di tutti gli altri popoli della terra i quali, attraverso la mediazione di Cristo, vedono aperto l’accesso alla piena comunione con Dio (cf. Ap 21,12-13.25). Ormai, la condizione per prendere parte alla convivenza celeste non sta più nell’appartenenza ad una particolare stirpe terrena, ma nell’adesione al Risorto e nella risposta al suo amore. È emblematico poi quanto viene proclamato in Ap 21,3: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio». L’uomo si trova finalmente faccia a faccia con Dio e gli è dato di condividere la sua stessa dimora. Questo però in un orizzonte universale che non soltanto conduce l’esperienza dell’alleanza al suo compimento ideale, definitivo, ma la trascende, superando ogni attesa. Il referente dell’amore di Dio infatti non è più solo Israele in quanto «suo popolo», ma tutta l’umanità, come «suoi popoli». Davvero viene eliminato ogni tipo di limite e di restrizione, e la comunione con Dio confluisce in una nuova convivenza tra gli uomini, nel segno della massima accoglienza e reciprocità.
Nella seconda lettura Paolo ci insegna qual è il primo atteggiamento che ci aiuta a permanere e a maturare nella comunione con Dio: ringraziarlo sempre dei doni di cui ci ricolma e riconoscere che non ci fa mancare niente per poter vivere nella fiducia e nell’attesa della venuta del Signore Gesù. Questa percezione della generosità divina gli riempie l’anima di gioia, e così deve essere anche per noi. La certezza della bontà di Dio e la constatazione della sua grazia, però, non possono rimanere fini a se stesse, ma devono diventare motivo di slancio nel servizio ai fratelli: è questo infatti il modo in cui egli ci chiede effettivamente di rendergli gloria con la nostra vita.
Il Padre che Gesù ci ha rivelato non è un Dio che regna in una nicchia beata, indifferente alla sofferenza umana. È un Dio che, al contrario, si prende a cuore tutto questo dolore, in quanto lui stesso lo conosce (cf. Es 3,7). Ed è proprio quello che Dio ha compiuto facendosi uomo in Gesù: si è calato nel cuore della nostra esistenza, ha toccato con mano la nostra sofferenza, si è lasciato ferire dalla nostra cattiveria, si è commosso per la nostra solitudine e ha fatto suo il grido della nostra disperazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). È proprio in questo che la fede cristiana si distingue da qualsiasi altra religione: mentre è in agonia, appeso alla croce, Cristo si lascia sprofondare nel cuore della sofferenza umana… Quanta consolazione scaturisce per noi dalla contemplazione di questo mistero incommensurabile!
È la via sulla quale siamo chiamati a seguirlo pure noi. Proprio in forza dei doni e delle grazie di cui ci ricolma, anche noi dobbiamo farci il più possibile vicini ai nostri fratelli, con i loro dolori, le loro contraddizioni e spesso nell’abisso della loro miseria.
È la via senz’altro scomoda ma assolutamente affascinante della condivisione del cuore di Dio e del suo amore, che ci porta a riconoscere in coloro che nel mondo si trovano alla deriva nell’anonimato — vittime dell’ingiustizia, della violenza, dell’egoismo o dell’emarginazione — nient’altro che il volto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle.
«Ecco l’agnello di dio, colui che toglie il peccato del mondo». Nel passo del Vangelo di Giovanni comprendiamo in che modo l’Agnello di Dio toglie i peccati del mondo, che si concretizzano poi in tutte queste forme di violenza, ingiustizia ed emarginazione: li toglie battezzando nello Spirito Santo. Il battesimo con acqua offerto da Giovanni esprimeva il desiderio di una purificazione, ma un battesimo con acqua è impotente contro il peccato, che è sporcizia dell’anima e del cuore, e non del corpo. Solo il battesimo nello Spirito Santo può purificarci, può liberarci dal male che sfregia l’uomo e crea un regime di divisione e dispersione. Ecco perché Gesù è venuto per battezzare nello Spirito Santo, e questo battesimo lo ha elargito all’uomo in tutta la sua potenza nel suo mistero pasquale di Passione e risurrezione.
C’è un elemento che ci aiuta a cogliere ancora meglio la natura e la portata di questo battesimo nello Spirito. Giovanni Battista, poco dopo aver riconosciuto Gesù come «l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo», sempre rivolgendosi ai suoi discepoli lo identifica come «lo sposo», definendo invece se stesso come «l’amico dello sposo» (Gv 3,29). Nei Padri della Chiesa, soprattutto in quelli orientali, era consuetudine, commentando questo testo, far riferimento alla figura del ninfagògo, colui cioè che nell’antichità aveva il compito, il giorno delle nozze, di assistere al bagno rituale di purificazione della sposa, di prelevarla e di accompagnarla dallo sposo.
In tale prospettiva, ci accorgiamo che anche l’identificazione esplicita suggerita dal Battista assume una connotazione molto più precisa e illuminante. Egli è «l’amico dello sposo» esattamente nei termini del ninfagògo: nel suo ministero di precursore precede Gesù, lo «sposo», in modo da preparare al meglio il suo popolo e condurlo incontro a lui come sua sposa, in accordo e compimento delle antiche profezie inerenti l’amore sponsale di Dio. Il battesimo con acqua da lui impartito, allora, è rapportabile al bagno rituale di purificazione della sposa, la quale potrà così trovarsi pronta alla venuta di Cristo sposo.
Questo mistero riecheggia anche nella Lettera agli Efesini, dove Paolo, nel quadro del¬l’amore coniugale da lui delineato, afferma: «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,25-27). Anche nella visione paolina si parla allora di un ninfagògo; soltanto che in questo caso è Cristo in persona a svolgere tale ruolo, con la conseguenza che sposo e ninfagògo finiscono per coincidere. È l’effetto del battesimo nello Spirito: il Signore vuole presentarsi alle nozze portando al braccio una sposa bella, unica, senza più alcuna lacuna, proprio come si addice a lui; è lo stesso Risorto quindi che, in quanto sposo, cura al meglio la preparazione della sua sposa, rivestendola della sua gloria e facendo così di lei, di noi, una sposa splendida, la sposa per eccellenza.
Comprendiamo meglio ora la novità del battesimo nello spirito rispetto a quello con acqua: non si tratta semplicemente di una purificazione, ma di una immersione nel mistero pasquale di Cristo, il quale ci conforma così a sé e fa di tutti noi una cosa sola con lui, in una comunione d’amore piena e definitiva. Inoltre, il destinatario di quest’azione di grazia, la sua «sposa», non è più solamente il suo popolo, una comunità esclusiva, ma l’umanità intera, quell’umanità che lo attende con impazienza per essere finalmente compresa e amata per quello che è. Dio ha offerto all’uomo nel corso della storia tante voci e tante figure capaci di mediare la sua parola e la sua presenza salvifica, ma uno solo viene percepito come perfettamente corrispondente, pienamente con¬forme al massimo delle sue attese e portatore della sua identità più vera, più pro¬fonda.
Il tutto è destinato a sfociare alla fine in una grande esplosione di gioia, nell’unione sponsale con Cristo; ma già ora tutti gli uomini di tutte le genti possono assaporare questa dimensione nuova, nella quale è dato loro di riconoscersi come fratelli, rigenerati dallo Spirito come membri di una sola grande famiglia.
don Luca Pedroli
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