sexta-feira, 10 de dezembro de 2010

INTERVENTO DI P. GABRIELE FERDINANDO BENTOGLIO, C.S.

A complemento di quanto ha esposto l’Arcivescovo Presidente, soffermandosi in particolare sui movimenti migratori – inclusi quelli internazionali a motivo di studio –, desidero mettere in luce quanto il Messaggio del Santo Padre si sofferma a considerare affermando che "in vari casi la partenza dal proprio Paese è spinta da diverse forme di persecuzione, così che la fuga diventa necessaria" (Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2011), riferendosi a quanti sono costretti a lasciare il proprio Paese per cercare asilo e rifugio altrove.
Con i processi di globalizzazione, anche mediante i frequenti e rapidi movimenti delle persone, il mondo si va sempre più unificando. A fondamento dell’autentica unità, comunque, vi è la consapevolezza della comune appartenenza alla natura umana. In tal modo, intravediamo il solido costituirsi di una sola famiglia, nella quale tutti siamo interdipendenti. In effetti, gli avvenimenti che si registrano in una parte del mondo inevitabilmente hanno ripercussioni anche altrove e, dunque, costatiamo che il mondo è davvero un villaggio, di cui tutti siamo diventati cittadini. E la mobilità umana, nelle sue differenti tipologie, è una di queste manifestazioni a livello globale, come afferma il Santo Padre spiegando che "il fenomeno stesso della globalizzazione, caratteristico della nostra epoca, non è solo un processo socio-economico, ma comporta anche ‘un’umanità che diviene sempre più interconnessa’, superando confini geografici e culturali" (GMMR 2011).
Quest’anno il Messaggio di Benedetto XVI, il quinto del suo Pontificato, sottolinea che l’umanità è una sola famiglia, multietnica e interculturale, e questo produce immancabili conseguenze per l’individuo, la società, gli Stati e le Chiese locali. La prima è che una famiglia autentica non è dominata dai membri più forti, ma si comporta esattamente all’opposto, cosicché i bisogni dei membri più deboli determinano la direzione e le decisioni da prendere. A fondamento vi è, senza dubbio, una cultura d’accoglienza, ospitalità e solidarietà. Come afferma il Santo Padre: "Accogliere i rifugiati e offrir loro ospitalità è per ognuno un gesto retto di solidarietà umana, così da non farli sentire isolati a causa dell’intolleranza e indifferenza" (GMMR 2011).
I rifugiati e i richiedenti asilo compiono atti di coraggio nell’abbandonare la loro patria e si dirigono verso altri Paesi proprio perché i loro fondamentali diritti umani sono stati violati, divenendo oggetto di persecuzione e vedendo in pericolo la loro stessa vita. Sono vittime di guerre e di violenze, costretti a fronteggiare condizioni umane in cui nessuno dovrebbe vivere. Ciò si assomma spesso al fatto di aver dovuto sopportare esperienze traumatiche, oppure alla consapevolezza che per loro il destino è stato favorevole, mentre i loro familiari sono rimasti in zone di pericolo.
Solo per quantificare il fenomeno di cui stiamo parlando, i dati statistici affermano che si contano oggi 15 milioni di rifugiati, dei quali 10.4 milioni sono sotto la responsabilità diretta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), mentre il restante 4.8 sono a carico dell’Agenzia di Lavoro e Sostegno delle Nazioni Unite nel Vicino Medio-Oriente (UNRWA). Il numero delle persone sfollate all’interno dello stesso Paese (IDPs), soprattutto in relazione a casi di violazione dei diritti umani, si aggira attorno ai 27 milioni1.
In tale contesto, la Chiesa avverte come suo compito quello di ristabilire i valori e la dignità umana, specialmente mediante la promozione di una cultura dell’incontro e del rispetto, che risana le ferite subite e promette nuovi orizzonti di integrazione, di sicurezza e di pace. La sfida consiste nel creare zone di tolleranza, speranza, guarigione, protezione, e nell’assicurare che drammi e tragedie – già troppo a lungo sperimentati in tempi passati e anche in quelli recenti – non accadano mai più. Qui il Messaggio Pontificio tocca uno dei temi forti della millenaria esperienza cristiana, quello dell’accoglienza. Essa, tradotta nell’ospitalità, nella compassione e nella ricerca dell’uguaglianza – in fatto di diritti e di doveri – costituisce il primo passo della risposta alla sfida alla quale ho accennato. L’obiettivo è quello di garantire ai rifugiati, ai richiedenti asilo e ai profughi concrete possibilità di sviluppo del loro potenziale umano, "aiutati a trovare un luogo dove vivere in pace e sicurezza, dove lavorare e assumere i diritti e doveri esistenti nel Paese che li accoglie, contribuendo al bene comune, senza dimenticare la dimensione religiosa della vita" (GMMR 2011).
Tutto questo richiede che diventiamo tutti maggiormente consci delle disagiate situazioni dei rifugiati, dei loro sogni e progetti di vita, oltre alle cause prossime e remote dei loro problemi. Il Santo Padre dice che "anche nel caso dei migranti forzati la solidarietà si alimenta alla ‘riserva’ di amore che nasce dal considerarci una sola famiglia umana e, per i fedeli cattolici, membri del Corpo Mistico di Cristo: ci troviamo infatti a dipendere gli uni dagli altri, tutti responsabili dei fratelli e delle sorelle in umanità e, per chi crede, nella fede" (GMMR 2011).
L’accoglienza comincia con l’empatia, cioè con lo sforzo di capire i sentimenti dell’altro e di comprendere come ci si trova in un mondo sconosciuto, con costumi e tradizioni diverse. Significa vedere nel volto del rifugiato una persona umana, che in questo momento particolare ha bisogno di buona assistenza. Essa implica la disponibilità ad offrire aiuto, costruendo contatti di fraternità e tessendo quotidianamente canali di comunicazione, anche per spiegare il significato di nuove usanze e aiutare a penetrare meglio nella conoscenza del nuovo ambiente sociale con il coinvolgimento attivo negli eventi che segnano la vitalità del territorio.
Le raccomandazioni che cogliamo nel Messaggio del Santo Padre mirano a sollecitare i singoli e la comunità internazionale a non ignorare le dimensioni di una sfida che riguarda il mondo intero. In effetti, potremmo avere l’impressione che solo l’Europa stia attualmente affrontando tale problema. Ma non possiamo dimenticare che, ad esempio, il Sud Africa ha accettato 220 mila richiedenti asilo nell’arco dello scorso anno, e tale cifra corrisponde quasi al numero di persone accolte nei 27 Stati membri dell’Unione Europea messi insieme, e più di quattro volte il numero di coloro che hanno cercato asilo presso gli Stati Uniti d’America2. Teniamo conto, poi, che l’80% del numero complessivo dei rifugiati e dei richiedenti asilo cerca di mantenere una certa prossimità con il Paese di origine. Dunque, assumere consapevolezza delle dimensioni del fenomeno certamente aiuta a rimettere le cose nel loro giusto ordine.
Indubbiamente ciò richiede anche che gli Stati si assumano le rispettive legittime responsabilità. In effetti, l’atteggiamento attuale di molti Paesi sembra contraddire gli accordi sottoscritti, manifestando talvolta comportamenti dettati dalla paura dello straniero e, non di rado, anche da mascherata discriminazione. Così, emerge una disparità sempre più accentuata tra gli impegni presi e la loro attuazione. È sotto gli occhi di tutti il ricorso a vari modi per eludere la responsabilità di accogliere e sostenere coloro che cercano rifugio e protezione umanitaria. Esplicitamente Benedetto XVI ammonisce che "nei confronti di queste persone, che fuggono da violenze e persecuzioni, la Comunità internazionale ha assunto impegni precisi. Il rispetto dei loro diritti, come pure delle giuste preoccupazioni per la sicurezza e la coesione sociale, favoriscono una convivenza stabile ed armoniosa" (GMMR 2011).
Invece, l’ingresso in alcuni Paesi per chiedere asilo è sempre più ostacolato e impraticabile. Quelli che si avventurano con mezzi di trasporto via mare (nel Pacifico, nel Mediterraneo o nel Golfo di Aden, ad esempio), ma anche quelli che utilizzano altre vie di fuga, troppo spesso si vedono trattati con pregiudizio: i loro casi non sempre vengono esaminati individualmente, mentre accade con frequenza che vengano rigettati in blocco. Anche a loro si dirige l’appello del Santo Padre quando afferma che "hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l’identità nazionale" (GMMR 2011).
Ad ogni modo, sembra confermato che rifugiati e richiedenti asilo versino oggi in pessime condizioni più che in passato, anche nei Paesi ospitanti del Sud del pianeta. Qui si contano a migliaia i rifugiati che sono forzati a rimanere nei campi di raccolta, a volte senza diritto di impiego e limitati nei loro movimenti all’interno del campo. Qui, tra l’altro, risiede uno dei motivi che li porta ad essere dipendenti dalle razioni di cibo giornaliero, che molto spesso sono insufficienti. Nel campo, poi, nascono e crescono nuove generazioni, che però conoscono soltanto il campo e sono ignare di quanto vi è all’esterno. Non è un’eccezione trovare bambini, figli di rifugiati, che hanno vissuto nel campo fino alla maggiore età.
Sorge allora l’interrogativo: cosa significa vivere per anni in un campo affollato, senza speranza di una vita più decente, oppure vedere che non c’è futuro per i bambini? Accade con frequenza, perciò, che vi sia chi tenti di abbandonare il campo per andare verso i centri urbani e sperare di rifarsi una vita, senza però chiedere la relativa autorizzazione e, dunque, violando la normativa vigente. Dignità e diritti dei rifugiati dovrebbero essere rispettati, specialmente in circostanze in cui esiste una frattura tra la teoria e la pratica. Ogni rifugiato possiede diritti fondamentali, che sono inalienabili e devono essere sempre rispettati.
Occorre offrire speranza per il futuro. La Chiesa, da parte sua, sta cercando di rispondere a questa domanda. I suoi sforzi e le sue attività ne sono appunto una chiara testimonianza. Papa Benedetto XVI offre ispirazione, motivazioni e incoraggiamento quando afferma che "ognuno, nutrito nella fede di Cristo al Banchetto eucaristico, assimila il suo stile di vita, che è lo stile del servizio attento specialmente ai più deboli e sfortunati. Infatti, la carità pratica è un criterio per provare l’autenticità delle nostre celebrazioni liturgiche".3
Vorrei concludere citando l’appello che risuona oggi con straordinaria forza nella voce del Santo Padre con queste espressioni: "Per la Chiesa, questa realtà costituisce un segno eloquente dei nostri tempi, che porta in maggiore evidenza la vocazione dell’umanità a formare una sola famiglia, e, al tempo stesso, le difficoltà che, invece di unirla, la dividono e la lacerano. Non perdiamo la speranza, e preghiamo insieme Dio, Padre di tutti, perché ci aiuti ad essere, ciascuno in prima persona, uomini e donne capaci di relazioni fraterne; e, sul piano sociale, politico ed istituzionale, si accrescano la comprensione e la stima reciproca tra i popoli e le culture" (GMMR 2011).
1
Totale dei rifugiati
(sotto la protezione UNHCR) Richiedenti asilo IDPs connessi coi diritti umani
Alla fine del 2009
Africa 2.300.062 436.930 11.600.000
Asia 5.620.502 67.928 4.300.000
Europa 1.628.086 282.214
America Latina e Caraibi 367.437 68.785 5.000.000
Nord America 444.895 124.973
Oceania 35.558 2.590
Medio Oriente 3.800.000
Europa e Asia Centrale 2.400.000
Totale 10.396.540 983.420 27.100.000
I primi posti nelle statistiche concernenti persone sfollate nel loro Paese (IDPs alla fine del 2009) spettano a Sudan 4,9 milioni; Colombia 3,3 - 4,9 milioni; Iraq 2,76 milioni; Repubblica Democratica del Congo 1,9 milioni; Somalia 1,5 milioni; Pakistan 1,2 milioni. Cfr. IDMC - NRC, Internal Displacement Global Overview of Trends and Developments in 2009, Geneva, May 2010; UNHCR, 2009 Global Trends, Refugees, Asylum-seekers, Returnees, Internally Diplaced and Stateless Persons, Geneva, June 2010.
2 Cfr. Sixty-first Session of the Executive Committee of the High Commissioner’s Programme, Agenda item 5(a): Statement by Ms. Erika Feller Assistant High Commissioner - Protection: Rule of Law 60 Years On, 6 October 2010, che si può consultare su http://www.unhcr.org/refworld/docid/4cbOcbc12507.html [visto il 14 ottobre 2010].
3 BENEDETTO XVI, Angelus del 19 giugno 2005, in L’Osservatore Romano (22 giugno 2005), p.1.

Nenhum comentário:

Postar um comentário